Cronaca
Castione, continua la protesta anti migranti. La CISL: “Non c’è nessuna invasione”
Continua la protesta anti migranti in alta Val Seriana ma la CISL Bergamo esprime il proprio dissenso: “Non c’è nessuna invasione anzi l’immigrazione sostiene il nostro sistema economico”.
Potrebbe continuare ad oltranza la protesta contro l’arrivo dei nuovi migranti previsto nei prossimi giorni al Passo della Presolana: i blocchi stradali intrapresi da un gruppo di cittadini da martedì sera nella località turistica dell’alta Valle Seriana continueranno anche nei prossimi giorni.
I cittadini in questo modo non vogliono creare disagio ma vogliono attirare l’attenzione per chiedere alla Prefettura che a Castione della Presolana non vengano più ospitati richiedenti asilo visto che ne sono già presenti più di 50. Il timore è anche che la stagione turistica venga messa a rischio visto che la zona d’estate è frequentata soprattutto da villeggianti e famiglie.
La protesta ha preso il via martedì con il primo blocco al Passo della Presolana fuori dall’albergo che ospiterà i profughi (leggi di più qui), mercoledì si è spostata fuori del Municipio in centro al paese (leggi di più qui) e giovedì in circa 300 si sono ritrovati di nuovo al Passo.
A riguardo si è espressa Gabriella Tancredi, segretario CISL Bergamo, che in una nota inviata alla stampa sottolinea come non ci sia nessuna invasione e spiega che l’immigrazione è necessaria per sostenere il nostro sistema previdenziale, oltre che economico.
La nota della CISL Bergamo
La Valle Seriana, soprattutto l’alta Valle, soprattutto la zona di Castione, è piena di famiglie chiamate “africani”, proprietarie di ville hollywoodiane costruite con le fatiche e i sudori di anni passati nel continente nero a lavorare e ad arricchirsi (e siamo sicuri, tutto in modo legale e moralmente ineccepibile).
Gli “africani” che arrivano adesso (e che provengono dall’Asia e dal Maghreb) difficilmente potranno tornare al loro paese e costruirsi ville con piscina e farsi chiamare “Presolana” o “Bergamasco”.
Nell’era dell’“aiutiamoli a casa loro”, troppo spesso ci si dimentica che quando ci sarebbe stata l’occasione per aiutarli a casa loro, noi a casa loro ci siamo arricchiti: e non parliamo dell’epico periodo dei colonialismi. Negli anni ‘50 e ‘60, anni di grande emigrazione economica degli italiani, quando oltre alla vicina Svizzera, è stata la lontana Africa a ospitare i nostri migranti, e se qualcuno dei locali si opponeva, non c’erano presidi che tenessero: i padroni eravamo comunque noi.
In questi giorni lasciano veramente senza parole le proteste che puntualmente vengono create per spingere fino all’inverosimile la paura dell’invasione, da politici senza scrupoli e senza conoscenza della storia, non parliamo poi di carità cristiana e di sentimenti umani.
È così difficile capire che non c’è nessuna invasione? È così difficile capire che queste persone scappano da guerre e persecuzioni contro le quali i nostri paesi non muovono un dito? Siamo così certi che vengano a portarci via chissà quali ricchezze e opportunità?
Eppure, a chi voglia vederli, i numeri parlano chiaro: l’immigrazione ci è necessaria per sostenere il nostro sistema previdenziale, oltre che economico; senza immigrati, 20mila anziani bergamaschi perderebbero la badante; l’80% degli arrivi di migranti è solo temporaneo: la meta finale è da tutt’altra parte; l’occupazione di strutture, come successo in tante zone, potrebbe trasformarsi in occasione di integrazione ed arricchimento non solo culturale, e comunque non è mai definitiva.
Gran parte del denaro prodotto da stranieri in Lombardia rimane qui in Italia e va a rimpinguare le casse dello stato italiano: le pensioni erogate dall’Inps in Lombardia a cittadini provenienti da paesi non comunitari sono pari all’0,3% del totale, mentre quelle assistenziali sono pari 2.7% del totale. Inoltre i cittadini stranieri sopra i 65 anni sono solo il 2.8% del totale mentre il 34,9% della popolazione immigrata residente in Lombardia ha un età tra i 30 e i 44 anni.
A Bergamo risiedono in totale 125.446 cittadini stranieri; nell’anno scorso si sono registrate 2.231 nuove nascite da genitori stranieri; nello stesso periodo, gli occupati nati all’estero (con almeno una giornata lavorativa nel corso dell’anno) sono stati 61.740; le imprese a gestione immigrata 9.287.
In tutta questa situazione, mentre l’immigrazione è scesa dello 0,2%, l’emigrazione bergamasca verso l’estero è salita di circa il 6%, con 47.332 orobici iscritti all’Aire (Anagrafe Italiana Residenti all’Estero).
Nonostante tutto, si è accentuata tra gli italiani la “sindrome dell’invasione”. Invece, secondo le proiezioni demografiche dell’Istat, per garantire l’equilibrio demografico della popolazione in diminuzione, si deve considerare che i nuovi ingressi di cittadini stranieri (solo in parte destinatari a tradursi in soggiorni stabili) non si collocano al di sopra di queste previsioni. Certamente è necessario valorizzare sempre di più e al meglio le nuove presenze a livello formativo, occupazionale e sociale, anche attraverso un’accoglienza dei nuovi arrivati distribuita più diffusamente sul territorio, con un maggiore coinvolgimento delle famiglie, devolvendo loro parte dei fondi destinati per l’accoglienza e favorendo un più fruttuoso e molteplice processo di integrazione.
E con estrema certezza dobbiamo dire in modo chiaro e fermo che non stiamo assistendo né siamo vittime incolpevoli di alcuna invasione, ma forse solo spettatori di un certo modo di fare comunicazione, e di un innato egoismo proprio dell’essere umano.
Ma mai dobbiamo dimenticare che senza alcun dubbio una parte della popolazione in arrivo da qualche tempo in Europa e nel nostro paese in particolare (l’Italia per la sua collocazione geografica è veramente la ‘porta’ dell’Europa) sta scappando da una condizione di vita indiscutibilmente difficile, ad un livello per noi neanche immaginabile, ed a causa di eventi che hanno le loro origini in scenari geo-politici a volte incomprensibili e sconosciuti.
Ed analizzando il fenomeno immigratorio di quest’ultimo periodo, è chiaro che di invasioni non possiamo parlare.
In un paese che si dice cristiano, in una provincia che non esita a ricordare che ha dato i natali a un “papa buono”, c’è di che riflettere su come siano sufficienti i fumi di qualche capataz locale per accendere le micce di un razzismo sempre più latente e pericoloso, mascherato dietro la difesa di un territorio da chissà quali pericoli e nascosto dietro “il grande disagio e la grande rabbia della popolazione, che potrebbe essere difficilmente controllabile”.
Forse dovremmo provare a capire tutti insieme come abbiamo fatto a lasciare che, nei nostri animi e nella nostra vita, la ricchezza dell’accoglienza e la dolcezza della condivisione abbiano lasciato il posto al più becero ed insano egoismo.
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