Cronaca
23 febbraio ospedale di Alzano, l’ultimo messaggio di Alfredo alla nipote: “‘Ti prego vieni qui”
Insieme ad Ernesto Ravelli, anziano di Villa di Serio, ad Alzano il 23 febbraio risulta positivo al Coronavirus Alfredo Criserà, 66enne di Nembro. Ci racconta la sua storia la nipote.
Alfredo Criserà era un uomo di Nembro di 66 anni, paese epicentro – insieme ai comuni vicini – dei contagi da Coronavirus in provincia di Bergamo.
La sua storia è quella di un uomo in salute, molto attivo soprattutto in paese, celibe e contornato dall’affetto dei numerosi parenti. Il suo nome arriva – suo malgrado – alla ribalta delle cronache locali e nazionali la sera del 23 febbraio 2020, quando in Val Seriana scoppia il caso Coronavirus. Una fuga di notizie che coglie impreparati gli stessi parenti che oggi, a distanza di quasi due mesi, intendono raccontare la battaglia di Alfredo contro il Coronavirus e portare a conoscenza dei dubbi che si sollevano riguardo alla gestione dei primi pazienti positivi.
Il ricovero ad Alzano per una polmonite
A raccontare cos’è successo allo zio Alfredo, una delle nipoti che gli è stata vicina negli ultimi giorni. La donna al telefono ci spiega: “Non c’è stata prevenzione in quella struttura. Non potevano sapere che il Covid-19 fosse lì? Legittimo. Ma ora vi racconto della mia esperienza nel reparto di Medicina la sera del 22 febbraio, il giorno prima del risultato dei tamponi”. Dunque, zio Alfredo va in Pronto Soccorso ad Alzano Lombardo il 20 febbraio. Viene accompagnato da un fratello che però non entra fisicamente nel Pronto Soccorso. Criserà viene subito ricoverato in Medicina per una polmonite. A quanto detto dalla nipote aveva tosse e febbre. Nei giorni successivi i parenti lo vanno a trovare e comunicano con lui telefonicamente. Non sta benissimo ma è lucido, si alimenta e risponde alle domande.
Sabato 22 febbraio, il trasferimento in una stanza da 3 pazienti con caschi per la respirazione
Fino a sabato sera quando la nipote lo va a trovare: “Sono entrata in Medicina alle 20.15 circa e ci sono restata pochi minuti. Accedendo nel reparto e cercando la stanza di mio zio ho visto che due infermiere avevano guanti e mascherine mentre un altro – notato alla mia uscita – non aveva i dispositivi di protezione. Allora pensai che le infermiere erano magari entrate in contatto con qualche caso particolare e non indagai troppo. Trovai mio zio, spostato dalla stanza dov’era in precedenza, in una stanza con altri due pazienti e tutti e tre avevano un casco per respirare. Mi spaventai e chiesi conto all’infermiere senza dpi che mi disse che non c’era alcun problema, anzi lo zio aveva bevuto anche prima da una bottiglietta, e potevo stare tranquilla.
Io ovviamente non mi avvicinai troppo, anche per non affaticarlo, ma lui era ludico e rispondeva alle mie domande. Mi disse che gli era stato detto che aveva un virus ma che non c’era da preoccuparsi. Io non avevo dato peso a queste parole ma ora mi chiedo: cos’era stato detto di preciso a mio zio? Che virus ipotizzavano? E perché – se erano comunque casi sospetti di qualcosa di anomalo – non hanno chiuso la stanza e il reparto e impedito l’accesso ai parenti? La tutela è una delle prime cose che il sistema sanitario dovrebbe garantire. Sta di fatto che poco dopo io e il mio compagno usciamo, lo zio era stanco e affaticato, e torniamo a casa. Saranno state le 20.30. Lo zio in quel frangente non mi aveva parlato di nessun tampone”.
“I medici gli dissero che aveva un virus virale”
Come noi sappiamo oggi infatti i tamponi ai casi sospetti, tra cui Ernesto Ravelli di Villa di Serio, vennero fatti quella notte e vennero mandati a Pavia per essere analizzati. Viene da pensare dunque che quella sera gli infermieri e i pazienti ancora non sapessero del Coronavirus ma Codogno era a pochi chilometri di distanza ed erano passati pochi giorni e soprattutto, se i medici avevano detto ad Alfredo di un “virus virale” (questa è la parola usata da Alfredo mentre dialoga con la nipote), è evidente che già da quelle ore qualcosa di sospetto ci fosse.
“Abbiamo scoperto dai social che mio zio era uno dei due casi positivi”
Sta di fatto che arriva domenica 23 febbraio e, una volta reso noto il risultato dei tamponi, la nipote – così molti cittadini della Val Seriana – viene a sapere della chiusura dell’ospedale su Facebook. “E’ stato incredibile – continua la donna -. Prima abbiamo avuto il sospetto poi la certezza attraverso gli articoli e i post sui social: nostro zio era uno dei positivi al Coronavirus e l’abbiamo saputo da internet. Nessuno ci ha mai chiamati subito per dirci della sua positività tantomeno per avvisarci del decorso della sua malattia”.
L’ultimo messaggio che resta alla nipote dello zio, è sulla chat di WhatsApp dove, alle 16.55 di domenica, lui scrive: “Ti prego fai un salto qui da me”. Dunque Alfredo aveva capito la gravità della situazione e, elemento importantissimo, stava ancora bene così da riuscire a scrivere. Ovviamente la nipote non poteva recarsi in ospedale perché era stato chiuso.
Il trasporto a Bergamo poi al San Raffaele
Dopo quel messaggio però le cose precipitarono inspiegabilmente: Alfredo venne trasportato prima al Papa Giovanni di Bergamo (quella sera) e il giorno dopo al San Raffaele. Non uscirà più vivo da nessuna struttura. Qualche ora prima scriveva al telefono, qualche ora dopo era intubato in terapia intensiva. “E’ una cosa che ad oggi non siamo ancora riusciti a spiegarci – continua la nipote -“. Una volta al San Raffale i parenti vengono informati giornalmente della situazione di Alfredo e, anche qui, la vicenda ha quasi dell’incedibile, se non fosse per la gravità di quello che si sta ripercorrendo. Prima Alfredo sta male, poi viene estubato, ricade ben presto in terapia intensiva per uno shock settico da cui uscirà per la seconda volta. “Lo zio non ha più problemi ai polmoni – dicono i medici nei giorni successivi -. Ora serve la riabilitazione”. Nel momento dunque di predisporre la riabilitazione lo zio muore improvvisamente. “Alle 15 di quel giorno ci era stato confermato che lo zio stava meglio e che ora doveva essere riabilitato dal punto di vista motorio e cognitivo, visto la portata della terapia intensiva. Poche ore dopo ci comunicano che, finito il giro di telefonate e fatto il giro dei letti, è stato trovato morto. Ad oggi non sappiamo per quale sia la causa del decesso”.
Alfredo muore dopo un mese di ospedale
Alfredo dunque se ne va un mese dopo: è il 25 marzo quando muore al San Raffaele a Milano. Nel frattempo la sua famiglia si è messa in quarantena. “Una mia cugina successivamente al 23 febbraio è stata contatta dall’ospedale di Alzano fornendo i nomi di tutti i parenti entrati in contatto con lo zio. Noi tutti siamo stati controllati telefonicamente da ATS per le due settimane successive. Dei tamponi inoltre neanche l’ombra. Noi non ci siamo ammalati gravemente ma ad esempio a mio padre che ha un’attività in proprio e voleva tutelare se stesso e gli altri, il tampone (anche pagando) è stato negato”.
La vicenda di Alfredo e della sua famiglia e una delle innumerevoli vicende che raccontano di come i dubbi che restano nella gestione dell’emergenza siano ancora tanti. Senza considerare il fatto che appena dopo la loro positività fonti della Regione e agenzie di stampa avevano dichiarato che i due anziani bergamaschi positivi avessero avuto contatti con Codogno. “Questa cosa è veramente ridicola – conclude la nipote -. Mio zio non aveva neanche l’automobile. Hanno subito raccontato delle inesattezze e questo noi non lo accettiamo più”.
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Tom
17 Aprile 2020 at 11:20
Un calvario terribile, simile purtroppo a molti altri, mezze risposte mezze verità. Con un unica certezza, il fatto che la verità probabilmente mai, verrà a galla.
Luigi
17 Aprile 2020 at 13:53
Le verità ormai sono venute a galla da tempo, sono i “presunti” (o certi) colpevoli che stanno “defilati” in attesa di essere eventualmente… assolti!
Tom
17 Aprile 2020 at 18:03
Io intendevo la verità su come sono morte decine di persone esseri umani. La lettera tratta di questo. Per le altre verità ho paura che ci vorrà molto molto tempo, e forse…