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ALZANO LOMBARDO

Quella domenica di febbraio, i 4 casi di Coronavirus all’ospedale di Alzano Lombardo

Un ospedale. Due reparti. Quattro storie che si incrociano. Due mesi dopo il 23 febbraio cosa sappiamo di quella domenica ad Alzano.

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Due mesi. Un ospedale. Due reparti. Quattro storie che si incrociano.

Sono passati due mesi da quella domenica che ha cambiato per sempre la storia della Val Seriana. Era il 23 febbraio infatti quando, all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo facente riferimento all’ASST Bergamo Est, risultavano positivi al Covid-19 i primi due bergamaschi (insieme ad un terzo al Papa Giovanni di Bergamo). Quattro i tamponi effettuati tra sabato e domenica. Risultato: 4 positivi su 4 sospetti.

Ma facciamo un passo indietro perché la matassa invece che sciogliersi, sembra farsi più fitta.

I primi due tamponi positivi

I primi due tamponi effettuati nella notte tra il 22 e il 23 febbraio riguardavano Ernesto Ravelli e Alfredo Criserà.

Ernesto Ravelli, 83enne di Villa di Serio, si trovava ricoverato in isolamento in una stanza nel reparto di Chirurgia dal 22 febbraio (quel sabato era giunto in ambulanza dopo un precedente ricovero per emorragia in Medicina conclusosi con le dimissioni del 19 febbraio). Ravelli sarà il primo morto di Covid-19 in bergamasca, morirà infatti la stessa notte del 23 febbraio dopo il trasporto d’urgenza a Bergamo. A parlare con Valseriana News in esclusiva i parenti che hanno spiegato come Ernesto, conosciuto da tutti come Tino, abbia molto probabilmente contatto il virus durante il primo ricovero.

Alfredo Criserà, 66enne di Nembro, si trovava invece ricoverato nel reparto di Medicina dal 20 febbraio per una polmonite. Il sabato venne spostato da una stanza ad una tripla. Cosciente fino a domenica pomeriggio (mandò infatti un messaggio WhatsApp alla nipote), peggiorò in poco tempo e la sera stessa di quella domenica (come Ravelli) venne trasportato a Bergamo e poi al San Raffaele dove morì un mese dopo.

Ora dunque viene da chiedersi: chi c’era in stanza con Criserà? Gli alti due con il casco, com lui, erano altri casi sospetti? Evidentemente sì. E perché a loro il tampone è stato fatto domenica con esito il lunedì? Cerchiamo di dare risposta a queste domande.

Cosa è successo quella domenica ad Alzano Lombardo

La fuga di notizie di quella domenica pomeriggio aveva già reso noti, oltre alla chiusura del Pronto Soccorso, i nomi dei pazienti positivi come potete vedere in questo messaggio che girava su WhatsApp evidentemente inoltrato o sfuggito da qualche fonte ufficiale.

A confermare i due casi positivi anche l’avviso publicato sul sito del Comune di Alzano Lombardo.

La stessa dichiarazione del Direttore Generale dell’azienda Bergamo Est Francesco Locati, rilasciata a Valseriana News (15 aprile), conferma i due casi.

Torniamo al 23 febbraio. Ci può spiegare come vi siete organizzati nell’Unità di Crisi e cosa è stato deciso quel giorno.

In quella domenica si è avuto rilievo di 2 positività di Covid – 19 ; da ciò è discesa l’immediata adozione degli interventi previsti dai protocolli aziendali, ovviamente derivanti dalle Linee guida riconosciute dalle Autorità Sanitarie fino a quel momento. Abbiamo attivato l’unità di crisi aziendale, con la presenza di alcuni componenti del Comitato Infezioni Ospedale, analizzando la situazione e concertato i passi necessari in stretto raccordo con la Direzione Generale Welfare.

Da sempre però sulle cronache locali circolava un altro nome, quello di Franco Orlandi, 83enne di Nembro anch’esso ricoverato in quella stanza in Medicina. E’ stato il primo morto di Covid-19 di Nembro. Oggi, nella ricostruzione di quello che accadde due mesi fa, vi raccontiamo la sua storia.

Franco Orlandi, il primo morto di Coronavirus di Nembro in quella stanza di Medicina

A scrivere a Valseriana News è una familiare: “Alfredo Orlandi era in stanza con Criserà e un altro uomo nel reparto di Medicina all’ospedale di Alzano Lombardo in quei maledetti giorni di febbraio. E’ la prima vittima di Covid-19 accertata di Nembro. A scanso di equivoci dico già da ora che mio zio non guidava, non si è mai allontanato da Nembro e usciva il pomeriggio per bere un caffè con la moglie e altri parenti e amici, ovviamente nessun collegamento con il Lodigiano. Ho letto l’articolo in cui parla la nipote di Criserà, avrei qualcosa da dire anche io.

I primi sintomi dal 13 febbraio e il ricovero per polmonite bilaterale il 15 febbraio

Mio zio il 13 febbraio si è recato con la moglie e mio padre in pronto soccorso ad Alzano Lombardo, febbre alta che non scendeva nemmeno con la tachipirina, gli viene fatta una rx torace che risulta pulita e viene rimandato a casa, diagnosi influenza. Il giorno 15 le cose peggiorano, mio zio fa fatica a respirare, molta fatica, mia zia chiama l’ambulanza, vanno ad Alzano, altra rx torace, polmonite bilaterale, viene ricoverato, medicina, terzo piano. Dal 15 a venerdì 21 in quella stanza vi resta mia zia. I primi giorni i medici sembrano tranquilli, più passa il tempo più fanno capire che questa maledetta polmonite non risponde alle terapie.

Cos’è successo tra il 22 e il 23 febbraio: dpi che compaiono tra il personale, il rischio è ormai reale

Il giorno 22 febbraio, sabato, nel primo pomeriggio mia mamma si reca in ospedale, ci vado anche io poco dopo e mi fermo un po’ in stanza, saluto mio zio (che non era già più cosciente) avvicinandomi molto perché indossava il casco cpap. Negli altri letti della stanza ci sono altri due uomini ricoverati, quello nel letto accanto alla finestra è Criserà, quello al centro non sappiamo. Accompagno a casa mia zia, finalmente siamo riusciti a convincerla a riposarsi un po’. In ospedale resta mia mamma che sente il medico al telefono dire qualcosa del tipo “se ci fate avere i risultati lavoriamo più tranquilli anche noi”. Verso sera mia mamma torna a casa.

Il giorno dopo, la famosa domenica 23 febbraio, la mattina da mio zio c’è la cugina di mia mamma, decido di fare ancora un salto in ospedale, un ultimo saluto a mio zio. Entro in ospedale e noto che tutto il personale indossa mascherine di vario tipo, quando dico tutto intendo tutto, anche il ragazzo che riempie i distributori automatici. Salgo in medicina terzo piano, mi affaccio alla camera e vedo la cugina di mia mamma, anche lei indossa una mascherina, fermo un’infermiera e le chiedo se per entrare devo indossarla anche io e lei mi risponde che si, se entro nella stanza è meglio, me ne fornisce una, la indosso e entro. Resto poco, giusto il tempo in cui la cugina di mia mamma possa bersi un caffè tranquilla. Quello che non sappiamo chi sia è sveglio; il signor Criserà dorme, il giorno prima era sveglio e vigile e mi aveva salutata facendomi cenno con la mano. Saluto mio zio con la sensazione, poi rivelatasi corretta, che sarebbe stata l’ultima volta. Esco dalla stanza e noto che gli altri visitatori del piano non indossano la mascherina, mi chiedo il perché però la decifro come una misura di sicurezza in più, in quella camera avevano tutti il casco cpap, quindi avevano tutti una problematica ricollegabile alla respirazione e il caso Codogno imperversa a da qualche giorno su tutti i tg. Scendo in ascensore, sto molto attenta a non toccare nulla, vado ai distributori automatici che si trovano di fronte al Cup e attendo il mio turno, davanti a me ho tre persone, personale sanitario, una donna in uniforme bianca, e due uomini, divisa blu e divisa verde, chiacchierano.

Domenica 23 febbraio alle 11 del mattino il personale diceva: “li chiuderanno tutti dentro l’ospedale”

Prendo il mio caffè e comincio a berlo, non posso fare a meno di sentire le loro parole, sembra scherzino ma dicono qualcosa del tipo che “li chiuderanno tutti dentro l’ospedale”. Erano circa le 11 del mattino di domenica 23 febbraio. La donna mi sorride e io contraccambio ma mi sento agitata. La mia testa tira le somme, polmonite bilaterale, non risponde alle terapie, mascherine a tutto il personale, mascherine per noi che siamo entrati nella stanza, le parole dette in modo scherzoso dal personale sulla chiusura dell’ospedale con loro dentro. E’ un pensiero che non voglio fare, è troppo, lo caccio ma quando rientro a casa e scorgo i vicini con il loro bambino piccolo che ha appena subito un’operazione, gli dico da lontano di scusarmi se non gli tengo aperto il portone ma che ero stata in ospedale e “in questo periodo non si sa mai”. La cugina di mia mamma come detto resta la, era nella stanza quando hanno aperto il casco cpap a Criserà per pernettergli di mangiare.

Bloccati in ospedale quel pomeriggio

Dopo pranzo mio papà da il cambio a mia cugina, quando lei esce le viene detto che non c’è nessun caso, di non preoccuparsi, di farsi una doccia calda e lavarsi molto bene i capelli perché “prevenire è meglio che curare”. Verso le 14 o poco dopo mio papà mi chiama, lo hanno chiuso dentro l’ospedale, quello è il momento in cui sono arrivati gli esiti sui tamponi a Criserà e Ravelli presumibilmente, mio papà verrà trattenuto fino a tarda serata all’ospedale di Alzano, chiuso nel reparto con le infermiere e i degenti, tutti gli altri visitatori vengono mandati a casa, inconsapevoli, per mio papà e le infermiere si attendono tamponi che non arrivano. Criserà e anche l’altro paziente sono risultati positivi, il primo viene portato via, a Bergamo; l’altro non sappiamo se sia stato trasportato a Bergamo o meno.

Il 24 mattina il risultati di Orlandi che non viene traferito perché troppo grave, morirà il 25

Mio zio resta li, il giorno 24 ci comunicano la sua positività al tampone, degli altri due pazienti non c’è più traccia, è solo in stanza. Non verrà spostato a Bergamo perché considerato in fase terminale, il giorno 25 muore all’ospedale di Alzano Lombardo, inconsapevole di tutto, che è l’unica magra consolazione che abbiamo.

Il 23 dopo esserci consultati tra di noi ci siamo tutti chiusi in casa, ognuno al proprio domicilio, ognuno chiuso in una stanza, la cugina di mia mamma ha passato il lunedì cercando di contattare ATS per capire cosa dovevamo fare e come dovevamo comportarci, eravamo in balia degli eventi. Quando ATS ci ha ricontattati ci ha messo in quarantena fiduciaria, niente tampone ovviamente, a lei è salita la febbre, “se si alza di più chiami il 112”. Al momento stiamo tutti bene e nessuno di noi altri ha sviluppato sintomi, ovviamente nessun tampone è stato fatto se non a mio papà (che era stato chiuso nel reparto insieme alle infermiere e ai degenti) che risulta negativo. Questo è il racconto di come sono andate le cose dal nostro punto di vista, non vogliamo accusare nessuno ma avevamo il bisogno di raccontare. Cogliamo l’occasione di rivolgere un abbraccio virtuale ai parenti di tutte le vittime di questo virus.

Il quarto tampone positivo: Samuele Acerbis aveva dovuto insistere per ottenerlo

Il quarto tampone positivo accertato tra domenica e lunedì è quello di Samuele Acerbis, 63enne anch’esso di di Nembro che si trovava in quel letto nella stanza di Medicina tra Criserà, che stava dalla parte della finestra, e Orlandi, che dava sulla porta. Tre pazienti sospetti Covid-19 tutti e tre di Nembro (questo la dice lunga sul focolaio già presente in zona) nella stessa stanza ad affrontare inconsciamente un male che si rivelerà fatale.

Le dichiarazioni in vita di Acerbis le aveva raccolte Maddalena Berbenni in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera edizione Bergamo del 27 febbraio, dove si legge: «Il test l’ho fatto domenica alle 13 su mia insistenza», sosteneva. In malattia dal lavoro per influenza dal 17 febbraio, Acerbis si era poi aggravato fino al ricovero ad Alzano, la positività e il trasferimento in Terapia Intensiva al Papa Giovanni di Bergamo da dove non uscirà più vivo.

Alzano poteva essere come Codogno e Schiavonia ma così non è stato

Che cosa ci dicono oggi queste storie? Ci dicono con certezza che il focolaio di Nembro e Alzano era già presente nel territorio da settimane.

Ci dicono anche come l’ospedale al 23 febbraio fosse infetto, non solo il Pronto Soccorso, dov’erano transitati i pazienti, ma anche e soprattutto i reparti di Medicina e Chirurgia, dove si trovavano ricoverate tutte queste persone che lì si sono ammalate o hanno portato il virus trasmettendolo inevitabilmente – nei giorni in cui i casi non erano indagati come Covid-19 – a parenti e operatori sanitari.

Ma soprattutto ci dicono che Alzano poteva essere un’altra Codogno e un’altra Schiavonia. A Codogno, nel Lodigiano, dopo il primo caso italiano, quello del paziente 1 Mattia M. individuato la notte del 20 febbraio, l’ospedale venne chiuso e venne chiamata una ditta esterna, che noi abbiamo intervistato, per fare un’alta disinfezione di tutti gli ambienti che vennero sigillati sia in ingresso che in uscita. A Schiavonia, in Veneto, dopo il primo caso del 21 febbraio l’ospedale venne chiuso per diverso tempo e nessuno tra pazienti, dottori e visitatori uscì senza il risultato del tampone. L’ospedale aveva sospeso tutte le attività e il presidente della Regione Luca Zaia diceva alla stampa (Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio): “Sono molto preoccupato. Questo è un virus maledetto, è problematico e sorprende ora dopo ora”.

Mentre gli altri chiudevano e disinfettavano, ad Alzano quella sera stessa, tutto veniva riaperto dopo una sanificazione da protocollo e tutti tornavano a casa senza precise indicazioni. E così per diversi giorni. Tempo di organizzarsi, comprensibile nel caos più totale di quei momenti. Ma se Zaia diceva: “Chiudiamo tutti e tamponiamo tutti” negli ultimi giorni la Regione Lombardia, con le parole del direttore generale dell’assessorato al Welfare Cajazzo, ha spiegato così al TG 1 la necessità di riaprire: “Se avessimo dovuto schiudere Alzano, avremmo dovuto chiudere nei giorni precedenti gli ospedali di Lodi, Crema, Cremona e Pavia e in quelli successivi tutti gli ospedali della Lombardia, negando l’assistenza a tanti pazienti che invece abbiamo curato”.

Quanto le diverse strategie abbiano condizionato l’andamento dei contagi e dei decessi sarà la Magistratura a stabilirlo. Ma pare certo che, se l’ospedale fosse stato chiuso, oggi probabilmente saremmo qui a parlare del virtuoso esempio della Val Seriana, non di un fascicolo della Procura di Bergamo aperto per epidemia colposa.

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5 Commenti

1 Commento

  1. elia capitanio

    23 Aprile 2020 at 10:12

    già da prima tante persone come me facevano presente che Alzano andava ripulito. Pulizia bagni cooperativa alle 6 poi nulla e se lasciavo sporco il bagno ostie e madonne. Medicina . ho visto tanti di quei morti. li ho preso il colibater e nessuno mi ha mai fatto esame delle feci.Un incubo. Super specialista Gavazzeni il nulla. Finchè colpo di fortuna arrivo a Seriate e lì e cominciata la mia rinascita

  2. gian

    23 Aprile 2020 at 14:15

    Cronaca raggelante di una carneficina evitabile. Nessuno dei resposabili dei reati omissivi gravissimi che hanno causato ciò pare abbia un minimo di sussulto di dignità, la perla di fontana di ieri, ha detto che rifarebbe tutto. In guerra, per aver causato situazioni gravi che cagionavano perdite di vite umane , vigeva la fucilazione alla schiena.

    • Gianfranco

      26 Aprile 2020 at 17:12

      Si trovino i responsabili dello “scandalo” dell’ospedale di Alzano. Non essendoci la possibilità di una fucilazione alla schiena, si ricorra almeno alla loro condanna e al risarcimento per le vittime causate dalla loro superficialità e finalmente vengano rimosse dalla loro carica indegnamente occupata.

  3. Giovanni

    23 Aprile 2020 at 15:57

    Ma perchè dopo quello che è successo all’ospedale di Alzano, poi non sono state fatte le zone rosse ad Alzano e Nembro? Penso che siano in molti ad avere sulla coscienza tutti i morti che ci sono stati e spero che la Magistratura indaghi a fondo, ma come al solito inizierà lo scaricabarile delle responsabilità.
    Buona giornata

  4. Marco

    23 Aprile 2020 at 17:41

    Non c’è più da commentare nulla, siamo in balia di idioti che però abbiamo messo lì noi, per la verità io no, ma è una magra consolazione.

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