Cronaca
“Quella CPAP che non c’era”, la morte silenziosa di una madre nelle parole di una figlia
“Quella CPAP che non c’era”, la morte silenziosa di una madre nelle parole di una figlia. I traumi vissuti in Val Seriana difficili da superare.
Ci sono storie che fanno male. Che continuano a fare male. Anche ora che l’emergenza Coronavirus è rientrata. Fanno male soprattutto ora perché a risentire di quei momenti concitati, di quegli errori e dei numerosi dubbi che restano non ci si dà pace. E fanno male sia perché il dolore da raccontare è troppo grande, sia perché chi le ascolta ha un compito difficile: quello di raccontarle con dignità.
Quella che vi raccontiamo oggi è la storia di una mamma. Di una donna in salute per i suoi 67 anni. Di una nonna. Che poteva essere la nostra mamma e la nostra nonna e che se n’è andata in una domenica notte di marzo in silenzio in un ospedale bergamasco come centinaia di altre mamme. Come una farfalla delicata. Senza fare rumore.
I primi sintomi a inizio marzo
Loretta Bana abitava a Casnigo con il marito. Ha due figli e 4 nipoti. A raccontarci di lei è la figlia Lidia Poli di Peia, che l’ha seguita in ogni momento del suo calvario.
La vicenda inizia a marzo quando Loretta non si sente bene: ha febbre alta e va dal medico di base che le prescrive antibiotico e cortisone. Mercoledì 4 marzo non è ancora il boom dei casi da Covid-19 in provincia di Bergamo, Loretta inizia a respirare male così il medico la visita a casa e la saturazione ad 84 impone una vista al Pronto Soccorso di Piario.
“La portiamo noi in ospedale – spiega Lidia -, non volevamo impegnare un’ambulanza visto che non stava troppo male. Non erano ancora i giorni di caos, il triage stava per essere allestito proprio in quelle ore ma ci venne subito detto che a Piario c’erano già 14 persone in cura per il Coronavirus”.
La tac alla mamma rivela presto l’esito previsto: polmonite interstiziale. Le fanno subito il tampone e prima resta in osservazione con l’ossigeno in un box medico del Pronto Soccorso e poi le viene proposto un posto letto ad Alzano Lombardo, ospedale della stessa azienda ospedaliera di quello di Piario. Ad Alzano il 23 febbraio si erano verificati i primi casi positivi della provincia di Bergamo.
La famiglia accetta, così Lidia va a casa a prepararle un borsone con il necessario per il ricovero. “Anzi – precisa Lidia – avevo riempito bene il borsone perché si parlava della zona rossa e se non avessi più potuto raggiungere l’ospedale mia mamma aveva tutto il necessario per diversi giorni. Come sappiamo la zona rossa non è mai stata fatta e il borsone non ci è mai stato restituito”.
Da Piario ad Alzano, in 5 in ambulanza
Mentre Lidia si reca ad Alzano, erano le 19 circa di quel mercoledì 4 marzo, arriva l’ambulanza che trasportava la mamma e con gran stupore, Lidia (nel frattempo entrata in Pronto Soccorso), vede scendere 5 pazienti ognuno con la propria bombola trasportati tutti sullo stesso mezzo.
I 5, tra cui la mamma di Lidia, vengono scaricati fuori dal Pronto Soccorso (il triage non c’era ancora), percorrono il corridoio che li porta agli ascensori, vengono richiamati da un’infermiera che gli indica di tornare indietro (sempre con le loro gambe) e di accedere nell’ospedale da un accesso secondario del Pronto Soccorso. “Inoltre – continua Lidia incredula – dall’ambulanza volevano indietro le bombole. Una situazione davvero allucinate ora che ci penso: tutti in difficoltà respiratoria costretti a spostarsi in fretta con le loro poche forze”.
Sta di fatto che mamma Loretta accede al reparto di Medicina 2 e inizia il suo ricovero. Per cosa? Ancora non si sapeva. Perché il risultato del tampone non era ancora arrivato e non arriverà mai.
Tempi lunghi per il tampone
“Quello del tampone è stato un grosso problema – continua Lidia -. Di fatto il risultato non è mai arrivato o meglio, ci verrà reso noto lunedì 9 marzo, giorno dopo la morte della mamma e dopo nostri continui solleciti alla Direzione Sanitaria perché nessuno ci diceva nulla a riguardo. Oggi – alla vista della cartella clinica – sappiamo che era stato processato il 6 al Niguarda ma che, inviato a Piario domenica 8, era rimasto fermo lì”.
“Mia mamma dunque non ha mai iniziato la terapia sperimentale per il Coronavirus seppure la tac aveva rivelato una polmonite interstiziale. Il tampone infatti poi darà esito positivo. Sarebbero cambiate le cose? Non possiamo saperlo. Però ci resterà sempre il dubbio”.
E il dubbio di Lidia è lecito, perché la situazione della madre, tutto sommato stabile fino a domenica 8, precipita causandone la morte in pochissime ore.
La situazione precipita in poche ore
“Mia mamma ha comunicato con noi fino a domenica 8 marzo sera – rivive a fatica Lidia quei drammatici momenti -. Il suo ultimo accesso su WhatsApp è delle 20.20 e alle 23.45 mi hanno chiamata che era morta. E’ una cosa che non supereremo mai. Un trauma indescrivibile. A maggior ragione del fatto che sulla cartella clinica c’è scritto che quella sera necessitava di CPAP ma non era reperibile. Ditemi voi come si può accettare questa cosa”.
Uno shock inspiegabile e inimmaginabile quello vissuto da Lidia e da centinaia di famiglie bergamasche che hanno perso i loro cari e che oggi come ieri continuano a soffrirne. “Non abbiamo potuto stare vicini ai nostri cari, non sappiamo effettivamente di cosa siano morti – aggiunge Lidia -. Leggiamo nero su bianco che avevano bisogno di un’assistenza che non è stato possibile darle. Per carità, non per mancanza di qualcuno. Non vogliamo dare colpe a nessuno. Non ce l’abbiamo con i medici e gli infermieri. Loro sono stati degli angeli. Ma è evidente che l’assenza di protocolli univoci e precisi abbia ulteriormente complicato le cose. Per un parente una trauma del genere non è facilmente superabile. Dobbiamo pensare anche ai danni psicologici di questa strage, ai nipoti che hanno perso i nonni così, come se fossero spariti. E’ durissimo andare avanti”.
Telefono perso, dolore che si somma al dolore
Ma la vicenda di Lidia e della cara mamma non finisce l’8 marzo. Perché quando gli addetti delle Onoranze funebri si recano in ospedale per occuparsi della salma della mamma, nel sacco degli oggetti personali mancano il telefono e il borsone. “Questa cosa mi ha fatto molto soffrire – aggiunge Lidia -. Ci hanno restituito il beauty e altre cose. E non il cellulare. Certo, il telefono non è un oggetto di valore ma racchiude la vita di una persona. Lì c’erano le conversazioni di mia mamma. Le foto. La sua musica che avrei voluto ascoltare. I contatti delle sue amiche che non ho neanche potuto avvisare della morte. Ho sporto denuncia ai carabinieri per la perdita del telefono. Capisco il caos di quei momenti ma il cellulare di mia mamma non è mai più saltato fuori. Alle 20.20 accedeva a WhatsApp, possibile che a mezzanotte non l’aveva più con sè? Per me sarebbe stato importante averlo. Sarebbe stato come avere un po’ di lei con me”.
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