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Cronaca

Occupazione: in bergamasca lavora una donna su due

Preoccupa l’occupazione femminile in bergamasca, con il lockdown persi altri 6.600 posti di lavoro. In Provincia di Bergamo come nel resto d’Italia l’occupazione femminile è sotto il 50%.

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Ragazza al computer

Il 24 giugno scorso, l’Ispettorato del Lavoro e le Consigliere nazionali hanno presentato in videoconferenza i dati relativi alle convalide delle dimissioni del proprio relativi all’anno solare 2019: i provvedimenti di convalida sono stati 51.558, il 4% in più rispetto all’anno precedente di cui 37.611 presentate da neomamme (il 73% del totale e il 4,6% in più rispetto al 2018); 13.947 i papà che si sono dimessi, il 27% del totale con un aumento del 3,4% rispetto allo scorso anno. Dati sempre scoraggianti, che evidenziano in generale le difficoltà dei neogenitori lavoratori/lavoratrici a conciliare la vita famigliare con quella lavorativa. Dati che non discostano dai trend degli anni precedenti di rispetto a qualunque altro studio, report, analisi sia stato fatto su questo tema negli ultimi dieci anni, ma che vengono trattati come notizia e ripresi in interventi, dichiarazioni, gli articoli. L’essenza è che oggi in Italia, essere madre è una colpa.

Il valore aggiunto della maternità, invocato da molti, resta solo un buon proposito specie nel mercato del lavoro dove le discriminazioni di genere colpiscono maggiormente lavoratrici madri. Nonostante i numerosi studi internazionali sulla relazione direttamente proporzionale tra occupazione femminile e numero di figli/e, spesso è proprio la maternità a determinare l’abbandono del posto di lavoro per l’impossibilità di conciliare la vita e lavoro e a creare quelle condizioni che rendono difficoltoso il rientro post-maternità. L’Italia nel 2019, secondo il Global Gender Gap Report 2020, si colloca al 76esimo posto su 153 Paesi con un peggioramento di 6 posizioni rispetto al 2018. Pesa la bassa occupazione femminile in Italia, lavora ancora meno di una donna su due, e le differenze retributive tra uomini e donne a parità di mansione. Risolvere il problema del lavoro femminile non solo avrebbe impatti positivi sulla natalità (in Italia e in Lombardia rispettivamente 1,29 e 1,36 figli/e per donna) ma si avrebbe un impatto positivo sulla crescita economica nazionale e dell’Unione europea.

I tassi di occupazione in Bergamasca relativi al 2019 e ai primi mesi del 2020

Il tasso di occupazione femminile a Bergamo nel 2019 si attestava al 54%, di sotto della media lombarda pari (59,3%) e sopra quello nazionale del (49%). Quello maschile invece si attestava al 76%, con una differenza di ben quasi 22 punti percentuali. Con la ripresa economica il gap di genere è aumentato, sebbene anche il tasso di occupazione femminile sia costantemente aumentato dal 2017 al 2019. Secondo i dati della Provincia di Bergamo, nel primo trimestre dell’emergenza Covid si sono ridotti le posizioni di lavoro dipendente causa stipo delle nuove assunzioni e mancato rinnovo dei contratti temporanei. Il mese di maggio segna un calo occupazionale di 6,6 mila posizioni. La componente femminile registra un calo più accentuato di quella maschile nelle nuove assunzioni (-49,7% contro 44.6%) e una minore riduzione delle cessazioni (-16,2% contro 22,3%). I posti di lavoro persi sono stati quella a maggior concentrazione femminile (segregazione settoriale).

In tale panorama è possibile ora analizzare nel dettaglio le dimissioni dei neogenitori al fine di poter comprendere come porvi rimedio e favorire l’occupazione femminile, quale principale motore dell’economia. Dal Portale della vigilanza del Ministero del Lavoro, cui le Consigliere hanno accesso per la Provincia di competenza, è possibile rilevare e analizzare i dati bergamaschi in tema di dimissioni di neogenitori. Secondo tali dati dell’Ispettorato Territoriale di Bergamo nel 2019 hanno presentato le dimissioni n. 1.430 neogenitori contro 1.459 del 2018 e 947 del 2017. Confrontando il dato 2019 e anche quello relativo al I semestre del 2020 e in un’ottica di proiezione si evince una debole contrazione totale del fenomeno, con un aumento delle dimissioni delle lavoratrici madri.

Preoccupa l’attuale stagnazione del mercato lavoro, la possibile recessione economica i cui effetti potranno essere visibili a partire dal prossimo autunno e soprattutto la sospensione dei servizi di supporto dei servizi di cura durante il lockdown e la loro incerta riapertura per i prossimi mesi. Seconda un’ottica di genere delle 1.430 dimissioni volontarie presentate, 1.051 riguarda donne (73,5%) contro il 379 degli uomini (26,5%). In termini percentuali nel 2020 le donne rappresentano il 78,8% (con un aumento di ben 5 rispetto all’anno precedente) e 395 in valori assoluti. Esaminando il tipo di recesso si nota che prevalgono le dimissioni volontarie nelle madri: 1.037 nel 2019 (98,67%), dato confermato anche per il 2020 (96,71%) e stesso dicasi per quelle dei padri: 307 nel 2019 (97,63%). Il tipo di recesso, quale giusta causa e risoluzione consensuale rappresentano insieme nel 2019 solo il 1,34% e lo stesso vale anche per gli anni 2017 e 2018.

Le fasce d’età più coinvolte

Considerando l’età delle lavoratrici le dimissioni si concentrano per gli anni dal 2017 ad oggi in due fasce d’età :29-34 e 34-44, nel 2019 presentano lo stesso valore assoluto (402). Sono quindi 804 le lavoratrici tra i 29-44 che hanno presentato dimissioni, lavoratrici che si trovano nella classe di età più fertile che si dimettono con l’arrivo del primo/a o del secondo/a figlio/a. Analizzando l’andamento temporale si notano riduzioni in valori percentuali nella fascia d’età fino a 24 anni il che conferma che l’arrivo del primo/a figlio/a coincida con un’età matura e quindi una scelta razionale della famiglia. Le dimissioni dei lavoratori padri si concentra nella fascia d’età 34-48 (48,28% del totale). Diversa è però la motivazione che induce a lasciare il posto di lavoro, ossia non per mancanza di conciliazione vita-lavoro ma piuttosto per cambio di lavoro. Considerando la cittadinanza della lavoratrice si nota che nel 2019, le italiane sono 908 (86,4%), UE 48 (4,6%) ed Extra UE 95 (9,04%) Nel I semestre 2020 sono state 333 le cittadine italiane dimissionarie contro 40 Extra –UE e 48 UE. In un’ottica temporale si nota un andamento stabile delle dimissioni dei tre gruppi delle donne. I padri dimissionari italiani rappresentano l’80% del totale nel 2019 (303), contro 16,3% Extra UE e 4% UE, con una tendenza temporale in diminuzione in tutti e tre i gruppi. Analizzando anche l‘età delle lavoratrici notiamo una sensibile differenza: le cittadine Extra UE e UE si dimettono maggiormente in tre fasce d’età: 24-29, 29-34 e 34-44. Si aggiunge rispetto alle italiane la fascia d’età più giovane, correlato probabilmente all’età minore in cui decidono di fare un/una figlio/a. I padri dimissionari italiani si concentrano nella fascia 34-44 (45,89% nel 2019 e 50,5% nel I semestre 2020). Uguale tendenza si rileva nei padri Extra UE. Diversamente invece i padri europei si concentrano nella fascia 29-34.

Il lockdown ha accentuato le disfunzioni già presenti nel mercato del lavoro femminile quali la difficoltà di conciliare vita lavoro delle donne causa assenza dei servizi di cura di supporto: si pensi ai servizi educativi integrati e l’assenza di supporto di parenti e nonni nella gestione dei figli/e. Durante il lockdown le donne, specie nei settori dei servizi e ad alta femminilizzazione, hanno continuato a lavorare cercando di conciliare il loro ruolo di lavoratrice con quello di madre e figlia, assistendo prole e/o genitori anziani. Lo smartworking, trattasi per lo più di lavoro da remoto purtroppo, è stato un privilegio di alcune (le impiegate) e non di altre, si pensi alle operaie. Alcuni strumenti messi in campo: quali bonus baby sitting e congedi parentali sono stati elaborati in un’ottica di breve periodo, la fase di emergenza e potrebbero essere un utile strumento qualora fossero resi strutturali e più snelli nell’utilizzo.

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