Cronaca
“Hanno chiuso l’Italia per non chiudere la Val Seriana”: i familiari delle vittime del Covid scendono in piazza
“Hanno chiuso l’Italia per non chiudere la Val Seriana”: sabato a Bergamo la manifestazione dei familiari delle vittime del Covid che chiedono la verità
Si terrà sabato 31 luglio dalle 10:30 in piazza Matteotti a Bergamo, fuori dal palazzo Comunale, la prima manifestazione dei familiari delle vittime del Covid. I parenti delle numerose vittime bergamasche della prima ondata, insieme ad altri familiari provenienti dalle province vicine, staranno in piazza in silenzio rispettando le norme anti contagio ma dando un segnale forte: la continua richiesta della verità ancora oggi ostacolata anche dai politici bergamaschi. Verità negata sulla gestione dell’ospedale di Alzano Lombardo, tra i primi focolai mai isolato. E ancora: verità negata sulla mancata zona rossa di Nembro e Alzano Lombardo, con il rimpallo di responsabilità tra Regione Lombardia e Governo e la recente pubblicazione (anche da parte della nostra testata) del Decreto mai firmato dall’allora premier Giuseppe Conte. Questioni su cui indaga la Procura di Bergamo con la grande inchiesta condotta da Maria Cristina Rota. In piazza, insieme ai familiari, ci saranno Giuseppe Marzulli (ex direttore medico dell’ospedale di Alzano Lombardo), il Generale Pier Paolo Lunelli e il team dei legali che hanno intrapreso la causa civile a Roma. La manifestazione è aperta a chiunque voglia unirsi al gruppo dei familiari.
La lettera dei familiari delle vittime in piazza sabato a Bergamo
Abbiamo deciso di scendere in piazza. E lo facciamo di fronte al Comune di Bergamo per manifestare il nostro disappunto nei confronti di un sindaco e di altri politici del territorio che non hanno detto una sola parola in merito all’increscioso tentativo di insabbiamento avvenuto nelle scorse settimane a suon di emendamenti (presentati anche dai parlamentari bergamaschi, Alberto Ribolla ed Elena Carnevali) sulla commissione d’inchiesta sul covid.
Eppure fu proprio Giorgio Gori a lasciarsi andare alla commemorazione dello scorso 18 marzo in espressioni come “non c’è Bergamasco che non abbia dovuto dire addio a qualcuno a cui voleva bene”, “ciò che colpisce è che questi numeri [quelli relativi ai decessi, ndr] raddoppiano quelli delle vittime ufficialmente accertati”, “la metà dei nostri morti non figura nelle statistiche ufficiali riguardanti la pandemia”, “migliaia di nostri concittadini (centinaia in città) sono deceduti con i sintomi del covid, ma senza una diagnosi”, “sono morti nelle loro abitazioni o nelle case di riposo senza che fosse possibile fare loro un tampone, perché a marzo 2020 i tamponi erano pochi e bastavano appena per i casi più gravi”.
Consapevolezze che, di fronte a tutti gli italiani, evidentemente non gli sono bastate per chiedere al Presidente del Consiglio, Mario Draghi, di farsi garante della verità che si deve ai bergamaschi, ai bresciani, ai cremaschi, ma soprattutto agli italiani. No. In quel discorso non la pronunciò mai la parola verità.
Eppure, lo scorso marzo 2020, Conte e Speranza furono costretti a chiudere l’Italia per essersi ostinati a non chiudere la Val Seriana. E non lo diciamo noi. E’ messo nero su bianco su un decreto che lo stesso ex-presidente del Consiglio non avrebbe mai firmato. Ma evidentemente vogliono evitare che tutti gli italiani lo sappiano.
Eppure, chiudere sarebbe stato prerogativa di tutti. Inclusi i Presidenti di Regione. Ma anche di quei sindaci per i quali, invece, non bisognava fermarsi. Fino al punto in cui si è dovuta chiudere l’Italia, bloccando un intero Paese.
Noi oggi chiediamo la verità perché sentiamo di doverla dare non tanto a noi stessi, ma la dobbiamo a tutti i cittadini italiani.La dobbiamo ai piccoli artigiani, ai ristoratori, ai commercianti e a tutti quegli imprenditori che a causa di una gestione della pandemia molto più politica che sanitaria hanno visto in pochi mesi andare in frantumi una vita di sacrifici.
Lo dobbiamo a chi, a seguito delle chiusure di queste attività, ha perso il lavoro con dei bambini da crescere e mandare a scuola. Lo dobbiamo a chi, avendo perso il lavoro ora vive per strada. E lo dobbiamo a loro, ai bambini. Costretti a stare rinchiusi per mesi senza muoversi, giocare e incontrare i propri amici.
E lo facciamo anche e soprattutto perché in tal modo possiamo rappresentare per questi bambini un ideale. Quello di chi non si sa arrende davanti ai muri di gomma; di chi si assume su di se’ la responsabilità di spendersi per gli altri nonostante le difficoltà; di chi sa che l’Italia può e deve essere un Paese migliore in cui credere e crescere.
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